Il Guizzo del Capodoglio – Un popolo nel mare di Giulio Badalucci

Il Guizzo del Capodoglio – Un popolo nel mare di Giulio Badalucci

Quando passa tanto tempo dall’ultima volta che scrivi ci sono tante cose che entrano in gioco: imbarazzo perché non si scrive da tanto e quindi sembra di non saper mettere due parole dietro l’altra, vergogna, pensando Oddio non scrivo da mesi!! Alla fine però si scrive per il piacere di farlo e tutte queste cose non c’entrano.
Spero che le vostre vacanze siano andate bene, le miei abbastanza tranne qualche piccolo incidente di percorso (incidente nel vero senso della parola, ma non riguarda me nello specifico), e poi la ripresa dell’università.
In tutto ciò ho letto pochissimo. Che vergogna, ma prendere un libro richiede tempo e non sempre lo si ha, non sono cose da prendere e lasciare con leggerezza. In questa lunga assenza ho letto qualcosina ovviamente, tra cui un libro dedicato a Procida, l’isola dove abito. Scritto da un’isola è stata organizzata una piccola presentazione e io ho scritto un mio pensiero da dedicare all’autore.

Non è un romanzo, non è un saggio e non un libro di genere, ma mi piaceva l’idea di condividere con voi anche questo. Farvi conoscere un po’ quell’isola dove sono cresciuta, che molto conoscono solo come luogo di villeggiatura, ma che per i procidani è altro e non solo questo.

Spero che vi piaccia. E chissà che forse vi incuriosisca e vi faccia venire a visitare Procida.
Per il resto proposito di Natale: scrivere di più!

 

Il Guizzo del Capodoglio – Un popolo nel mare
di Giulio Badalucci
Possiamo scegliere di leggere un libro per tante ragioni: noia, voglia di conoscenza, voler passare qualche pomeriggio in compagnia di personaggi inventati. Alla fine della lettura avremo occupato il nostro tempo, avremo passato dei pomeriggi piacevoli e riporremo il nostro libro, forse senza neanche ricordare perché l’avevamo iniziato. Ritengo che però iniziare a leggere un libro per ricordare sia forse la scelta migliore, per poter assaporare attraverso la lettura quello che purtroppo è scomparso dalla nostra vista ma è vivo nei racconti dei più anziani, e alla fine di quella lettura sono sicuro che non vorremo riporre il libro, perché non vorremo smettere di ricordare, vorremo occupare tutti i nostri pomeriggi alla ricerca di quella memoria perduta o dimenticata e riempire il vuoto causato dal tempo maligno.
Diceva Cicerone, uno dei più grandi oratori dell’Antichità che “la memoria è tesoro e custode di tutte le cose”,  ecco perché da quando l’uomo ne ha compreso l’importanza ha sempre cercato un modo di mantenere vivo il ricordo. Prima della nascita della scrittura, era la parola l’unica arte che l’uomo aveva a disposizione, per questo ci si sedeva intorno al fuoco ad ascoltare affascinati i più anziani, cercando di carpire la saggezza e l’esperienza nascosta tra i fili bianchi dei loro capelli o nei meandri della loro mente.
Anche se ora il progresso ci allontana da tutto ciò, è lì che l’uomo tenta o dovrebbe tentare di ritornare, a quel unica e reale forma di magia che l’umanità possiede: la memoria.
Nel corso della storia, quando qualcosa è importante e vogliamo mantenerla intatta ci affidiamo all’esperienza, contiamo sull’appoggio dei più anziani affinché l’antica arte del mondo non vada persa.  Accade per tante cose ed è così anche per la pesca, arte antica che a Procida viene tramandata intatta per mantenere viva un’identità unica e personale . Perché vi sono cose per le quali non esistono regole scritte, non vi è un libro dell’istruzioni da leggere, tutto viene affidato alla voce di un anziano la cui “fronte è come un libro sempre aperto consumato dal sale e al vento, dove è possibile leggere gioia e tristezza solo in mare, poiché tutto viene abilmente nascosto tra le rughe” per citare Giulio Badalucci.
I procidani sono quel popolo nel mare, che vive delle sue tradizioni, a volte presenti a volte scomparse, ma che sono vive nel ricordo di chi le ha vissute: e quale voce migliore e più sincera di quella di un bambino per ricordare le tradizioni di un tempo? Giuliareddo è il più piccolo di una grande famiglia in quanto i genitori, con l’aiuto del padreterno, l’avevano concepito dopo sette fratelli: tre femmine e quattro maschi, che vivevano tutti nella stessa casa. “Giuliareddo” non è altro che un bambino come molti, vivace, avventuroso e ricco in amicizia e amore, ma ciò che ha sempre contato per lui è la famiglia e la tradizione. Giularieddo è bambino e adulto, dotato di una saggezza infantile intrinseca, e conosce la vera importanza della memoria, dell’ascolto del più grande che tramanda al più piccolo ciò che la vita gli ha insegnato.
Attraverso gli occhi di Giuliareddo corriamo febbrilmente per tutta la Chiaiolella, fermandoci di tanto in tanto ad ascoltare qualche anziano pescatore o vecchia signora che la prima domanda che ti pone è “A chi si figghie?”, perché nulla conta più della famiglia e del senso di appartenenza, e Giuliareddo questo lo sa e con il tempo si accorge anche di come la memoria e la tradizione appaiano simili a delle chimere e stiano lentamente scomparendo e allora vorrebbe urlare che “No non possono scomparire” e allora continua a portarci con sé alla scoperta della Marina della Chiaiolella, un posto magico donato dagli dei, una conchiglia con al suo interno una perla, protetta da tutti venti, tranne quello caldo dello scirocco.
Questa lunga corsa non è solo però un elogio al passato e alla tradizione, ma anche e soprattutto una critica aperta a fatti e azioni che hanno danneggiato Procida e la sua arte piscatoria, la sua terra e il suo mare. Non si risparmia niente e attacca voracemente tutto ciò che sta divorando la terra che con un forte senso di possessività ogni procidano sente propria.
Giulio Badalucci sfrutta il registro della favola e della meraviglia per insegnare e tramandare qualcosa, ed ecco che i pezzi di sughero parlano e tentano di irretire l’anima di una bambina, o una spigola, che ricorda il rombo della fiaba dei fratelli Grimm, “sale dal mare”, non per esaudire un desiderio ma perché non vuole più vivere in quel mare di cui ha dimenticato il sapore e l’odore. Ci sembrerà allora che un campo di fiori possa parlare, urlando al mondo le proprie virtù e i propri sacrifici, ma soprattutto facendo risaltare una morale che spesso fingiamo di non vedere, di come spesso in virtù di un progresso indicato come necessario lasciamo che il polpo di Alisandro prosciughi la sua bellezza naturale. La realtà a volte si mescola con la superstizione e il magico,  ma non vi è niente di inventato e tutto è reale, tutto vero e vissuto attraverso gli occhi di un bambino, che sono l’unica strada per il meraviglioso.
Ciò che però Giuliareddo sembra dirci in ogni modo è che la meraviglia che egli vedeva in ogni cosa, quasi come una divina presenza che riempiva la natura del luogo dove era nato, sta morendo sotto lo sguardo ignaro o indifferente di chi assiste. Una morale c’è sempre alla fine di una storia, questo è quello che credo.

 

E alla fine possiamo sempre decidere di correre con Giuliareddo, lungo le strade della Chiaiolella, nel tentativo di ripristinare o almeno salvaguardare la terra e il mare che appartiene a “Un popolo nel mare”.
Giovanna Lubrano Lavadera
giovanna.lubranolavadera@gmail.com
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